Ekidna: Riflessioni sulla contro-realtà (in chiave cattiva…)

Ekidna [echidna, vipera]: la feroce Echidna, un mostro che si nutre di carne viva, diversa dai mortali e dagli dei immortali, mezza ninfa con occhi penetranti e l’altra metà un enorme serpente, grande e terribile, con la pelle maculata, che né muore né invecchia mai. Dà vita a dei mostri spaventosi: Hydra, Chimera, Sfinx, Scilla, Arpie, Gorgone madre di Medusa e altre malvagie covate che perseguitano gli incubi dei buoni cittadini. Nemico di ordine e dell’idolatria, invulnerabile alla fede, alla legge e alla colpevolezza, inocula la realtà imperiale con il veleno dell’incertezza e della distruzione. E a coloro che cadono tra le sue braccia sussurra: “La speranza ci trasforma in statue di sale che per sempre guardano, con gli occhi pieni di lacrime, verso i cieli da cui si suppone che arrivi la salvezza”.

 Giocando a contro-realtà
> Definirei l’esperimento che abbiamo iniziato l’estate scorsa come un’appassionata “territorializzazione”. Ho desiderato farlo per molto tempo, essendo ormai sospettoso della mia evasiva routine di viaggio, nomadismo o come si desidera chiamarlo. Non troverò l’uscita dal luna park della vita borghese muovendomi incessantemente, penso ormai, ma restando fermo. Per me, non ci sono più città dorate, terre favolose o estasi supreme che aspettano in lontananza. Non c’è un segreto finale da scoprire oltre l’orizzonte. C’è solo l’ansia ardente del vivere e non posso più alleviarla correndo in giro come se la mia coda fosse in fiamme. L’affronterò qui, su questo territorio che sto conoscendo lentamente. La presenza in un territorio, penso, è l’antidoto al miscuglio di codardia, crudeltà, paranoia e narcisismo che la realtà dominante ci vende come “la bella vita”.

> Mi piace usare il termine di “contro-realtà” per descrivere ciò che stiamo cercando di fare qui, non solo per riconoscere che ancora ci auto-definiamo in relazione ai codici della realtà dominante (e come potrebbe essere altrimenti, dal momento che la politica è una interazione con le relazioni di potere esistenti?); ma anche perché la nostra realtà non è complementare a quella dominante, non è il “supplemento organico” alle sue realtà industriali, corporative, coloniali, urbane, falliche e spettacolari. Rifiutiamo di armonizzare la nostra realtà con l’allegra fantasia corporativista liberale “Perché non possiamo essere tutti amici?”. Se Ekidna e le sue realtà sorelle prospereranno davvero, la realtà dominante deve scomparire; e viceversa (rispettando la differenza di scala, ovviamente, che non ci rende più minacciosi di quanto loro lo siano già per noi). Il termine “contro-realtà”, quindi, esprime un antagonismo: uno scontro che non può essere risolto all’interno delle attuali coordinate della realtà borghese.

> Per me, la presenza nel territorio è un passo verso l’assunzione di responsabilità per la costruzione della mia realtà immediata, cioè per le pratiche che modellano la mia vita. È il rifiuto di continuare a ignorare i dispositivi che, nella modalità di default (che è quella borghese), governano questa vita.

> Se le estasi di una persona sono sinaptiche con i dendriti dello Spettacolo, se i loro nodi di godimento sono eccitati dagli impulsi rilasciati dai vari centri nervosi della realtà dominante, allora quella persona ha una relazione erotica con l’ordine borghese a prescindere da ciò che proclama o, anzi, dalle azioni politiche catartiche che intraprende sporadicamente[1]. Quando le nostre pratiche quotidiane rimangono persistentemente docili – fare la spesa, pagare l’affitto, lavorare per soldi sotto gli ordini di un capo o di un manager, vociferare sui social media, vivere in una relazione intima con gli ambiti istituzionali e con gli algoritmi Statali, costruire una carriera (attivista o professionista, è lo stesso), viaggiare, abbellirsi, godere delle merci, andare all’opera, al teatro, al museo, al bar, al ristorante, alla galleria d’arte o al club, prendere la metro, il taxi o Uber (tutti alimentano le infrastrutture dominanti), guardare una serie Netflix o un video pop, leggere un libro famoso, riprodurre i modelli dell’amore borghese ecc. – significa che ci stiamo ancora godendo il nostro abbraccio appassionato con l’economia borghese. Spero che, una volta territorializzato, mi sarà più difficile dissimulare la docilità delle mie pratiche quotidiane dietro la vuota astrazione della “grande causa” o della “rivoluzione”; e così, diventerò incapace di recitare la parte dell’attivista[2] ribelle mentre vivo una vita conformista, annidato al sicuro nella culla dei dispositivi dominanti.

> Come tutt@ sappiamo, per sperimentare ci sono necessarie determinate risorse; una sperimentazione seria è bloccata dal sistema borghese di scarsità, senso di colpa e risentimento che ci fa correre, sempre senza fiato, dopo le briciole più elementari della vita. Quindi, ho pensato, la costruzione di contro-realtà deve iniziare dall’assicurare l’accesso a qualche tipo di risorsa che ci permetterà di uscire dagli infiniti cicli borghesi di produzione/consumo, odio/obbedienza e disperazione/esaltazione. E, ho anche pensato (sono abbastanza riflessivo!), lo spazio è una di queste risorse. Sin dal suo inizio, il capitalismo è stato organizzato come una guerra totale per il controllo dello spazio (invasione coloniale, recintare le terre comuni, centralizzazione Statale, urbanizzazione, proliferazione delle discipline[3], etc.), anche perché impedire l’accesso allo spazio è una delle strategie di base per impedire l’organizzazione di realtà ribelle.

Space battles

> E così, abbiamo acquisito un pezzo di terra e una casa in rovina in campagna. Non abbiamo un’idea chiara da dove cominciare o dove arriveremo. Che non è per niente una brutta cosa. Partiremo dall’ovvio: ristrutturare la casa, imparare a fare un po’ di agricoltura, organizzare riunioni, feste e reti. Delle pratiche piuttosto banali per un progetto con ambizioni così elevate, si potrebbe dire. Sono d’accordo. Ma per noi non ci sono strade o destinazioni già costruite; potremmo tracciare percorsi alternativi, a questo punto ancora impensabili, solo una volta che voltiamo le spalle ai riflettori accecanti dello Spettacolo e iniziamo a trovare la nostra strada nel buio. Per il momento, è bello girare l’imprevedibile in traballanti macchine volanti e trovarci a degli incroci in cui nessun percorso è quello giusto.

Quello che mi aspetto accadrà (anche se molto probabilmente accadrà qualcosa di molto diverso …)
> Alcuni diranno che i nostri esperimenti sono falliti sin dall’inizio, poiché le nostre premesse non rispettano i principi sacri di nessun manuale di “buona pratica contro-culturale”[4]. Ma non abbiamo tempo per i principi in questo momento. Inoltre, poiché i nostri approcci all’antagonismo e alla lotta sono così diversi dai modelli di lotta urbana, le nostre esperienze non sono direttamente traducibili nei codici, linguaggi, pratiche o gerarchie del militantismo di città. Vale comunque la pena provare a iniziare una conversazione.

> Esiste un delicato equilibrio tra togliersi (parzialmente) dalle macchine che sostengono la vita borghese ed entrare in lotta diretta con le forze dell’ordine. Se non voltiamo le spalle all’economia borghese rimarremo un altro gruppo di cittadini imperiali “discontenti”. Ma, alcun@ diranno, se ci rifiutiamo di entrare in conflitto con il liberal-capitalismo, ciò che facciamo non è altro che giocare a “ritiro in campagna”. Non sono d’accordo: l’esodo e la scomparsa sono scelte politiche radicali e, almeno per me, rappresentano forme di resistenza migliori rispetto a quella di rimanere un altr@ attrice secondaria pien@ di speranza nello Spettacolo urbano. In questo momento, interagire con la realtà borghese non è la mia priorità; potrei tranquillamente guardare i suoi cicli spastici di mangiare/cagare da lontano, mentre gioco alla contro-realtà con le mie amiche e complic@. Ma ciò non significa che non mi piacerebbe anche creare, giocando, degli strumenti anti-borghesi efficaci, perché tali strumenti sarebbero utili per interagire con l’ordine dominante ai nostri termini.

 Lo so, sono orribile…
> Poiché, come già accennato, non sappiamo bene cosa stiamo facendo e cosa aspettarci, cos’altro c’è da fare se non iniziare con presunzione, tracciando alcune linee immaginarie di antagonismo? Vedremo se sarò o no costretto a ritrattare (con presunzione). Ecco alcuni brevi pensieri su ciò di cui sono entusiasta e, in particolar modo, alcuni su ciò che non mi piace o non m’interessa. Da una posizione di sinistra, questi pensieri potrebbero farmi sembrare arrogante, immorale o orribile, anche peggiore del nemico. Ma io non sono di sinistra; descrivermi come un agro-nichilista, oltre all’autoironia che questa identità immaginaria implica, suggerisce anche un serio sforzo di uscire dalle idiote vacillazioni sinistra/destra della “democrazia” borghese. Se ti sentirai contrariat@ da quello che dico, al momento non ho molto da aggiungere. Se il mio elenco preliminare di malvagità e immoralità ti diverte, sarei felice di discuterne ulteriormente.

Non m’interessa…
> Creare un rifugio bucolico, un sanatorio di campagna o una opzione di lavoro per attivist@ esaurit@ o per chiunque altro. Non sono qui per organizzare ritiri o vacanze. Abbiamo bisogno di complic@ acut@, non di persone che vogliono “sfuggire alla loro vita frenetica”, sfogare le loro frustrazioni o perseguire i loro progetti individuali in “natura” prima di tornare ai soliti giri intorno ai neon urbani. La viaggiatrice orientalista desiderosa di “esplorare” la Sicilia si sentirà particolarmente fuori posto qui. Mi piacerebbe che per le persone che vivono qui insieme, anche per breve tempo, Ekidna sia il gioco principale e non un’annessa secondaria alla loro “vera vita”.

Inoltre, non c’è nulla d’idilliaco nel vivere sulla terra: ho già abbastanza esperienza per sapere che sulla terra, lontano dai piaceri e dalle identità forgiate nei centri dello Spettacolo, tutti i nostri conflitti fondamentali – nostre ansie e paranoie, nostra aggressività, nostro risentimento e la natura obbediente dei nostri piaceri quotidiani – sono esposti allo stato grezzo. È un posto piuttosto pericoloso.

> Cercare la purezza, pace, armonia o un fantasmatico “autentico”.

> La lotta per la “giustizia sociale”. Trovo qualsiasi fantasia che si raduna sotto lo stendardo della “giustizia” poco attraente: invoca lo spettro della Legge (quella dello Stato, quella del Padre), dei sacri codici e delle sacre costituzioni, dei tribunali, dei giudici e – inevitabilmente – dei poliziotti e della logica imperiale di centralizzazione, ordine e normalizzazione. Lascio la lotta per la “giustizia” ai vigilanti liberali e quella per l’”integrazione” ai vari organi corporativisti o organici-funzionalisti che sognano una “società” armoniosa e docile. La brutta forma di governo che le liberali continuano a chiamare “società” è un prodotto delle forze combinate del capitalismo, del colonialismo e dello Stato e deve scomparire. Mettere cerotti sulle sue gangrene e dialogare con l’ordine dominante sui termini decisi dai suoi custodi e fedeli seguaci, secondo me, sono sintomi del desiderio per la società borghese.

> Qualsiasi attività intesa come “lavoro”. “Lavoro, impegno, sforzo, vocazione, carriera ecc.” – nella fallica religione che chiamiamo “modernità”, questi termini sono equivalenti al simbolo della croce. Il “lavoro” come dispositivo sociale per la produzione della soggettività è stato inventato dai teologi e amministratori cristiani e poi assunto con entusiasmo, perfezionato e reso inevitabile sia dal capitalismo sia dal socialismo/comunismo di Stato. Mi rifiuto di essere definito, identificato o riconosciuto attraverso una pratica approvata da uno di quei codici etici come misura del “valore personale”. Non sono fuggito dalla città per riprodurre qui le stesse ossessioni che alimentano i dispositivi urbani: produttività, efficienza, competenza, “best practice” o competizione. Come agro-nichilista a volte gioco in modo concentrato, meticoloso e serio. Provo a godermi ugualmente l’ozio, l’indolenza, l’inutilità, la procrastinazione e il disordine.

> Lo Spettacolo. Accattivare significa mantenere prigionier@; essere sedotti dallo Spettacolo significa sottomettersi distrattamente alle macchine di governo che determinano gli aspetti fondamentali della nostra vita e realtà. Ma, al contrario di quello che pensava Guy Debord, lo Spettacolo non è solo l’arena in cui la spettatrice passiva è ipnotizzata da una realtà “finta”, “non autentica” inventata dai maestri borghesi della luce e magia. Oggi lo Spettacolo, dall’arte alla pornografia, da Instagram ai mass media, dalle interazioni cibernetiche al festival di musica, teatro o cibo e dalla politica liberale alla cultura pop, è tutto ciò che esiste: l’unica arena in cui il soggetto borghese può ottenere l’essere, il divenire, l’identità, o come vuoi chiamarla. Non c’è realtà al di fuori dello Spettacolo; queste realtà devono essere create da zero e questo è ciò che io chiamo “contro-realtà”. Qualunque contro-realtà degna di questo nome è, a mio avviso, contraria allo Spettacolo.

> Forme di auto-definizione e d’interazione con le mie compagne basate sul martirio o sulla virtù messianica, sia morale, politica o teorica. Non è un compito facile, perché siamo stat@ socializzat@, da varie metodologie iper-identitarie di personalità e autostima inventate principalmente negli Stati Uniti, per godere appunto di queste forme di essere erette sui feticci cristiani del martirio e della virtù. Ma vale la pena provare perché, secondo la mia esperienza, questo tipo di auto-definizione porta ad ambienti sociali rigidi e paranoici[5].

M’interessa (un po’) …

Guerilla rurale

> La presenza. Per presenza non intendo quella senile ontologia umanista-Illuminista dell’(auto-) conoscenza; ma intendo essere consapevoli dei meccanismi che creano e regolano il nostro sostentamento, la cura di noi stess@, le nostre passioni e iniziative. Essere present@ significa rifiutarsi di lasciarsi trasportare come una carcassa felice dal flusso della “buona vita (borghese)”. Essere present@, in altre parole, significa essere consapevol@ di come sono governate le nostre pratiche più basilari e intime e di come si adattino (o meno) ai dispositivi dell’ordine dominante.

> Giocare: spero che passeremo la maggior parte del nostro tempo a inventare nuovi giochi, perché i buoni giochi possono aiutarci a sfuggire alla logica dei nostri comportamenti abituali e disciplinati. Possiamo inventare nuovi mondi mentre giochiamo, nuovi tipi d’interazione, di ragionamento e di divertimento, senza altri scopi se non quello di mantenere l’eccitazione. Un buon gioco è presenza, senza altra finalità che se stesso e senza regole o legge se non quelle inventate da chi gioca. E la fine di un buon gioco, per noia o per esaurimento, non porta a disperazione, depressione o senso di colpa, ma segnala semplicemente la necessità di inventare un altro gioco, domani.

 Ulteriore cattiveria agro-nichilista
Sto aggiungendo alcune riflessioni nella stessa maniera immorale, anti-sociale e anti-miglioramento. Li ho raggruppati in una sezione diversa solo per dare ripetutamente alla lettrice che non apprezza queste cattive maniere la possibilità di smettere di leggere.

 Né inverdimento del capitalismo né disintossicazione del “proletariato”
> Non mi unirò alla giubilante parata del capitalismo verde. Come tutt@ noi sappiamo, la produzione “etica, locale, autentica, sana, ecologica, su piccola scala, ecc.” è uno dei modi in cui i dispositivi di governo si sono adattati all’ambiente sempre più invivibile che hanno creato e che contribuisce a sostenere l’ordine dominante. Infondere nutrienti freschi, puliti, sani o etici nelle vene del regime borghese non è qualcosa che trovo politicamente eccitante. Allo stesso modo, l’obiettivo di garantire l’accesso a ingredienti di vita “sani” o “etici” ai cittadini fedeli non mi commuove. Per citare alcuni amici lontani, “Sotto l’Impero, la differenza tra la polizia e la popolazione viene abolita. In qualsiasi momento, ogni cittadino dell’Impero può … rivelarsi un poliziotto ”. Il destino dei cittadini fedeli è nelle loro mani. Io mi preoccupo solo delle mie amiche, compagn@ di gioco, complic@ e alleat@ e al momento la maggior parte di loro hanno abbandonato volentieri il gruppo di “cittadin@” o “lavoratrice”.

Mi entusiasma produrre cibo e altre cose, MA…
> È vitale, appassionante e divertente creare le condizioni della mia realtà quotidiana e mi sono convinto che qualsiasi lotta radicale per diventare (parzialmente) autonom@ dai dispositivi capitalista-liberali deve cercare di prendere il controllo (parziale) di queste condizioni. Ma è anche vero che chiunque, cittadini lealisti, fanatici religiosi, “survivalisti” di destra e fascisti inclusi, possono coltivare il proprio cibo, costruire la propria casa e produrre il proprio sapone (poiché possono anche protestare contro il governo, creare centri sociali occupati, aiutare i poveri o “marginali”, organizzare festival alternativi o combattere la polizia); tuttavia, nel caso dei fascisti, lealisti e così via, che sono guidat@ da fantasie falliche, le pratiche che potrebbero creare una rottura con i dispositivi dominanti finiscono per rafforzare vari elementi di questi dispositivi: patriarcato, misoginia, eterosessismo, razzismo, individualismo, egotismo, familismo, identitarismo, autoritarismo, gerarchia, competizione, militarismo, polizia, disciplina, obbedienza, ecc. – e imporli come legge suprema all’interno del “gruppo”. Quindi, tali realtà non sono antagoniste a quella dominante ma esacerbazioni dell’ordine borghese, che di solito accusano di non essere abbastanza “radicale” nel suo fascismo. Ad ogni modo, è chiaro che la creazione di una contro-realtà non consiste semplicemente nella creazione di cibo, riparo, ecc., ma nella creazione di nuove economie[6] di soggettività e comunanza: nuove modalità di immaginare noi stess@ e di relazionarci; nuovi desideri; nuove forme di vita che rifiutano i modelli offerti dalla realtà dominante. Penso semplicemente, come discusso, che costruire tali contro-economie richieda la territorializzazione; spero che Ekidna mi permetta di sperimentare tutto questo.

 Farò soldi, se necessario, MA …
> Sia io che le mie amiche, in vari momenti, ci impegneremo in pratiche di mercato e a fare soldi in vari modi. Ma penso che sia importante considerare queste pratiche monetarie come sotterfugi tattici, messinscene, operazioni sotto copertura e così via. Quando, e se, le nostre pratiche di mercato e le nostre identità come produttrice di merci diventeranno una fonte di orgoglio e godimento e prenderanno il sopravvento sulla nostra immaginazione, allora penso che inizieremo a sostenere la realtà dominante anziché indebolirla. A quel punto, le regole fondamentali della realtà borghese, ad esempio la regola secondo cui una vita ha il valore del suo lavoro, dei suoi prodotti commerciali o delle sue pratiche di mercato (anche quando tali mercati sono aperti o clandestini), diventeranno nostre.

Non m’interessa l’accusa “stai disattendendo dalla vera lotta (urbana) per ritirarti nella tranquillità rurale”

> C’è una varietà di attivista urban@ che respinge ogni critica della narrativa del “proletariato (oppresso)” come epitomale agente rivoluzionario e delle attività politiche che avvengono dentro le mura della città[7] come la “vera lotta”. Mi scuserai se non prendo tali posizioni troppo sul serio. In primo luogo, perché non m’interessano né il feticcio marxista del proletariato e della rivoluzione, né le ossessioni falliche e iper-moderniste bolsceviche per il progresso, l’efficienza, la verità, l’ordine e il controllo. In secondo luogo, perché la città, essendo il bastione storico della borghesia, non è solo il centro nervoso del governo moderno, ma anche une delle ideologie moderne le più affascinanti. Il mito della città come luogo di liberazione, di sperimentazione e di rivoluzione deve essere afflosciato.

> Al momento, le possibilità di sviluppare contro-realtà dissidenti in città sono, a mio avviso, minime. Senza la rete di corporazioni, sostenuta da forze armate, che mettono prodotti sugli scaffali dei negozi o che forniscono loro acqua ed energia, l@ cittadin@ urban@ si spengono. Questo potrebbe sembrare un argomento semplice ma deve essere preso sul serio per ripensare la pratica politica, perché ignorarlo ci renderà incapac@ di uscire dal nostro innamoramento con l’ordine borghese. Oppure, per ribaltare l’argomento, credo che sia troppo comodo concentrarsi su varie “lotte urbane per l’emancipazione” mentre ignoriamo i dispositivi globali palesemente ovvi che, per alimentare l’insaziabile appetito della città – per lo spazio, il cibo, cotone, fibre sintetiche, acqua, gas, benzina ed elettricità, plastica, metalli, cemento, asfalto, mattoni, gesso e vetro, per bellezza e igiene, moda, intrattenimento e “cultura”, “scienza e tecnologia”, “progresso” o “cambiamento” – risucchiano la vita dalle comunità e dagli ecosistemi fuori dalle mura e schiacciano ogni serio tentativo di vivere autonomamente su un territorio. E, secondo il loro livello di coinvolgimento nei suddetti dispositivi, le pratiche quotidiane dei/delle abitant@ urban@ alimenterano involontariamente le forze che cercano di annientare le realtà “fuori muraglia”. Per usare un esempio molto semplice, sono piuttosto scettico sulle possibilità di produrre tutto il cibo di cui una città ha bisogno all’interno delle sue mura (orti cittadini, ecc.). E se le/gli abitant@ delle città continuano ad aspettarsi che i contadini del mondo, un gruppo che la modernità ha sistematicamente trattato come i dannati della Terra, fornisca loro cibo, allora si riprodurranno i peggiori rapporti coloniali della modernità.

> Alcuni nostre amiche diranno che la frontiera tra la città e il “rurale” non esiste più e che si possono stringere alleanze interessanti tra chi è dentro le mura e chi le sta fuori. Ovviamente l’economia urbana si estende ovunque, colonizzando e plasmando i territori di cui si nutre. E capisco le ragioni strategiche per parlare di alleanze. Preferisco però porre l’accento su la non-congruenza degli spazi all’interno delle mura con quelli fuori le mura. E questo perché a mio avviso, se vogliamo liberarci dall’ordine borghese, allora dobbiamo liberare la nostra immaginazione dalle mura della città. Tal liberazione ha bisogno di spazi fuori mura, di barbarie.

> Naturalmente potrei sbagliarmi ma al momento, l’esodo dalla città e la distruzione dei miti e delle economie urbane, per quanto improbabili possano sembrare come obiettivi, sono i modi per contrastare i dispositivi di controllo dominanti. Ma poiché la città è sia il centro di produzione sia un effetto dello Spettacolo, occulta abilmente i suoi apparati di controllo in fantasie seducenti di godimento ed emancipazione. Posso capire perché, come tante delle mie amiche, sono rimasto incollato alla sua carta moschicida per molti decenni, battendo le mie fragili ali fino allo sfinimento.

[1] Alcune di queste pratiche militanti che tutte noi conoscono perché ormai si incontrano in tutti gli ambiti “radicali” (un tipo di “pratiche radicali franchise”) sono esaltanti; alcune ci sembrano urgenti o necessarie. Lo so. Ma voglio sottolineare che da sole, queste pratiche non impattano l’organizzazione della realtà dominante; né sono abbastanza per sperimentare con il “rifiuto di chi siamo ora” e con “divenire altrimenti”. Al contrario, penso, la ripetizione automatica di queste pratiche è uguale al rituale cristiano della confessione (nel senso che è diventato un rituale politico catartico che assolve dai peccati quotidiani) e dell’estasi ottenuta attraverso delle cerimonie “sacre” e non ha molto a che fare con la costruzione di contro-realtà.

[2] Che vuole dire questo termine? Da dove viene? Perché è tanto amato dai liberali? E cosa sarebbe una che non è attivista; una “passivista”?

[3] Nel senso che Foucault dava al termine discipline: dei dispositivi che plasmano corpi e anime e che sempre agiscono sullo spazio.

[4] Come nota a piè di pagina e forse come punto di partenza per una futura discussione, ricordiamoci che certe forme di privatizzazione o, diciamo, di sovranità, sono ancora presenti anche in progetti che partono da una posizione più favorevole come, diciamo, uno spazio occupato. La maggior parte dei nostri spazi occupati, per ragioni complesse, nutrono un senso di proprietà e tracciano confini che solo alcune persone possono attraversare.

[5] Come molte delle asserzioni laconiche che sto facendo qui, questa rimane una provocazione, poiché non ho lo spazio per svilupparla. Abbiamo affrontato alcuni di questi problemi in modo più dettagliato su un’altra piattaforma (Eukariot). E potremmo forse dedicare altre produzioni a spiegare in modo più dettagliato che cosa intendiamo per Spettacolo; che cosa è la politica anti-fallica e perché vogliamo che Ekidna sia quello; e perché siamo scettici sulle possibilità di creare contro-realtà all’interno della città.

[6] Non uso “economia” nel senso liberale per indicare esclusivamente flussi di produzione e vendita di merci o flussi finanziari; ma per significare “l’organizzazione della realtà” o, meglio, “l’organizzazione del godimento”.

[7] Le mura di cui parlo, mentre un richiamo all’originario significato del termine “borghese”, rimandano alle frontiere (spesso invisibili) tracciate intorno alla e dentro la città dai vari dispositivi che plasmano il suo mito nonché le sue infrastrutture, processi, forme, rapporti di potere, piaceri, economia (incluso libidinale) e così via.