Racconti dal Post-Apocalisse
Il gioco post-apocalittico è un punto di partenza per imparare il trucco magico di non credere nel futuro e godersi il brivido elettrizzante dell’assenza di speranza.
La fine è vicina!
“L’Apocalisse è incombente! Siamo sull’orlo di una catastrofe irreversibile e dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per evitarla! Questa è forse la crisi più importante che l’umanità abbia mai affrontato!” Nel sistema di potere/sapere che abbiamo imparato a chiamare “modernità”, tali richiami sono sempre stridenti. L’escatologia apocalittica cristiana si annida negli apparati della “razionalità moderna” e il mondo borghese ribolle di ardore millenarista.
Che la fine del mondo sia predestinata è una narrazione comune nella maggior parte delle mitologie. Tuttavia, a differenza delle mitologie più antiche, l’escatologia borghese si aggrappa alla speranza di evitare la distruzione del mondo. Ci spinge tutt* avanti sulla sua autostrada della morte vivente utilizzando lo sprone del futuro.
“C’è ancora speranza se agiamo insieme adesso!” ci dicono. “Ristrutturiamo alcuni elementi delle nostre pratiche e investiamo nel domani!” gridano. Sono argomenti ottusi e ipocriti? Sicuro. Ma peggiore è che questi urli chiudono tutti i territori in cui vivere tranne quelli più noiosi.
Permettetemi quindi non solo di rilanciare i dadi della profezia apocalittica[1], ma di spingerli fuori orbita con una rivelazione finale: “In verità vi dico che non c’è futuro. La rovina del mondo attuale è inevitabile. Non perché sia predestinato da una divinità. Ma perché la profezia si è avverata già da molto tempo”.
Morte vivente
“Quello che più temi è già successo[2].” Quest’ affermazione oracolare è un inizio interessante per la mia storia. Da un lato suggerisce che il/la borghese è governat* dalla paura, da un mix di ansia e diniego che l* paralizza in una forma d’essere “predestinata”, in una posa solenne e fossilizzata che, attraverso la sua rigidità, tenta di negare il nocciolo d’incertezza e disfacimento che si annida al centro di qualsiasi identità, realtà, verità o sistema. Questa creatura calcificata grida: “Ecco chi sono! Ecco come/come stanno le cose!” D’altra parte, l’affermazione oracolare suggerisce che la via d’uscita da questo rigor mortis è accettare la perdita di “qualcosa” che non abbiamo mai avuto: certezza, controllo, pienezza, beatitudine, ecc. o, addirittura, un futuro.
Quindi, questa storia inizia lasciando stare qualcosa che non abbiamo mai avuto: le possibilità di progresso, attuazione, eccitazione, emancipazione o libertà nella modernità. In questo senso, l’apocalisse del mondo moderno è già avvenuta: tutte le sue potenzialità per creare ecosistemi e forme di vita eccitante sono morte da tempo, “morte” nel modo in cui è morta una metafora, un’immaginazione o una passione, morte come sono morte le foglie di lattuga in una scatola di plastica immerse nell’anidride carbonica sotto le luci al neon del supermercato[3]. Quando morirono esattamente? Non importa, in qualche momento della storia della “modernità”, molto probabilmente nel momento stesso in cui la modernità è iniziata[4].
L’unica cosa che i moderni regimi di potere riescono ora a fare è spingere questa realtà defunta in spasmi che imitano la vita con regolari iniezioni di terrore e paranoia; rinchiuderla in un esoscheletro di controllo capillare; e imbottire suoi abitanti di piaceri spettacolari e della promessa di un futuro migliore. Nel frattempo, dietro i finti orgasmi della società del consumo e del tempo libero si riproducono forme di vita senza vita, brevettate e standardizzate come dei semi OGM.
Il capitalismo è morto, viva il capitalismo!
Sebbene le possibilità dei regimi moderni-coloniali e liberal-capitalisti[5] di creare forme di vita che non siano morte o, più precisamente, che non siano morte vivente, siano esaurite, queste possibilità sono anche insuperabili. Nessun altro regime di governo di massa può sostituire la capacità del capitalismo-liberale di generare forme di vita, anche se queste sono zombie. Cioè: anche se ad alcun* di noi i dispositivi liberal-capitalisti di democrazia, libertà, identità, felicità e prosperità sembrano carcerari, nessun sistema di governo di massa può migliorarli. Questo perché dopo la modernità, il liberalismo, il capitalismo e Hollywood, qualsiasi forma di governo centralizzato deve fornire ai suoi sudditi modelli borghesi di sovranità, desiderio e intensità: l’estasi del consumo, i brividi sadici della disuguaglianza, le scosse elettriche dello Spettacolo (compreso quello della democrazia), le passioni omicide dell’identitarismo e le compulsioni auto-ingannevoli della speranza.
L’unica strada rimasta per chi sogna regimi di potere di massa è unirsi alla morte vivente dell’ordine borghese. E, direi anche, l’unico territorio rimasto per chi sogna un paradiso rivoluzionario sono i campi carbonizzati del martirio, del rituale e del dogma. Per le poche rimaste che pianificano la loro diserzione da questa realtà, potrebbe esserci una prospettiva più frizzante: la vita nella post-apocalisse.
Hai dimenticato che sei morto?
Prima di godersi beatamente la mancanza di speranza della post-apocalisse, però, è necessario affrontare la difficile situazione dell’ordine borghese: è morto ma non se ne rende ancora conto. Il suo cadavere continua a muoversi alla cieca, perdendo carne, arti e viscere, seguendo appetiti idioti, una carogna planetaria di El Cid. legato al suo rabbioso cavallo a vapore, correndo dietro alla carota dell’eccitazione, crollando periodicamente e bisognoso di esorbitanti rianimazioni alla Frankenstein.
Governatrici ed esperte lottano insieme per mantenere in piedi questo corpo in decomposizione e dimostrare la sua vitalità. S’impegnano con tenacia ossessiva in progetti megalitici di riforma, urbanizzazione, modernizzazione, de- e re-industrializzazione, in spietate transizioni verso il “nuovo e migliorato”. Le/i cittadin* rispettabil*, prodott* per il sistema, si concentrano sui loro “bisogni”, “desideri” e “autoaffermazione”, pront* a distruggere senza pietà chiunque ostacoli la loro (illusoria) soddisfazione.
Questa è l’epoca dei turbo-fascismi e agonizzerà per molto tempo.
Disintegrazione e vita senza speranza
Per assassinare la realtà dominante, almeno nel proprio psico-cosmo, non c’è altra via che abbracciare la disintegrazione post-apocalittica e frammentare il mito dell’integrazione, dell’unità, dell’armonia e del coordinamento sociale in miriadi di realtà incompatibili e idiosincratiche che non possono essere riorganizzate, ordinate o centralizzate in un unico ente governabile. La post-apocalisse è un mondo spezzato in pezzi impossibili da incollare insieme e disinteressato al richiamo del domani. Ignora il ricatto del futuro (“il presente è un trampolino di lancio verso il futuro”), sputa sulla speranza (“le cose andranno meglio”) ed è immune al richiamo del dovere (“fai la cosa giusta per il mondo e per i loro figli”). Ma non ha nulla di disperato o di rassegnato. Una volta abolita la proiezione nel futuro, l’esistente comincia a rappresentare ciò che è piuttosto che un momento fallito verso ciò che dovrebbe essere è ci libera dalla colpa, dalla decenza e dalle esigenze della causa.
La maggior parte delle incarnazioni della realtà dominante sono repulsive; ma, invece di percepire questa realtà come un’unica entità[6], l’abitante post-apocalittica cerca ciò che non è completamente morto e putrido al suo interno. Nella post-apocalisse si può godere di un’enclave di anomalia, di un covo di pirate o di uno strano evento come mondi a sé stanti con oscillazioni e destini peculiari, piuttosto che ridurli a uno strumento nell’orchestra globale del capitalismo o a un’eccezione irrilevante che presto verrà cancellata. Ogni incontro con l’insolito è, nella post-apocalisse, una fonte di fascino e non qualcosa da misurare rispetto alla norma della “rivoluzione”, “insurrezione” o qualsiasi altra cosa e da trovare carente. La cartografia della post-apocalisse assume la forma di costellazioni di mondi strani, piuttosto che quella di un manuale tecnico per realizzare un “cambiamento sistemico” o di una cronaca dell’universo monolitico del capitalismo liberale.
Senza la scadenza della rovina imminente o della salvezza si rinuncia alle estenuanti contorsioni che si compiono per preservare le briciole del mondo borghese, specialmente queste contorsioni compiute in nome della giustizia e dell’emancipazione di qualcun altro (“li oppressi, li sfruttati, eccetera.”). Nella post-apocalisse nessuna fa politica in nome o per la salvezza di un altra lontana. Si agisce per se stesse e per le proprie amiche. Nessuna fa lavori di mantenimento e di rianimazione perché non c’è niente da salvare o da trattenere, niente da lasciare in vita in quello che le/gli amanti dell’ordine chiamano “il sociale”. Solo roba che, finalmente, deve essere deposta nella tomba.
La post-apocalisse è una pratica del presente, delle complesse intensità che si nascondono in ogni spira e nodo del momento. L’assenza di speranza significa che non c’è altro da fare se non inventare e costruire la propria realtà, adesso: i propri spazi e territori, le proprie battaglie, i propri feticci, cosmologie, mitologie e feste, i propri ecosistemi ed economie (compreso di desiderio).
Mentre il tempo è deragliato dalla rigida ferrovia della modernità (“verso il futuro!”) e inizia a dividersi, ondularsi e a germogliare strani arabeschi in un piano di perpetua simultaneità, non c’è momento da perdere; ma finalmente c’è tempo per fermarsi, riconsiderare e reinventare ciò che sembrava ovvio. Quando lo spazio si libera dall’essere un cubicolo soffocante nel treno verso una o l’altra destinazione fissa e diventa un piano infinito che si estende in tutte le direzioni senza punti di riferimento assoluti, con la sconcertante costanza del vero disordine[7], si è liber* di errare verso molteplici orizzonti alla ricerca d’intensità, lasciando dietro di sé la paura di perdersi.
[1] “Apocalisse” in realtà significa “rivelazione”, solitamente da parte di messaggeri divini. Il contenuto della rivelazione può essere qualsiasi cosa. Ma resterò fedele al senso dato ad “apocalisse” dalla cultura pop occidentale, quello di “fine del mondo come lo conosciamo”.
[2] Questa è una parafrasi di Lacan, celebrità della psicoanalisi francese del secolo scorso. Si riferiva a qualcosa che la psicoanalisi freudiana chiama “castrazione”, la perdita del fallo, l’artefatto che garantisce pienezza, potere e godimento (e che nessun* ha mai possesso). La psicoanalisi è un’istituzione terribile, spesso fascista. Non vedo alcun problema nel saccheggiare le sue casse ammuffite alla ricerca di qualcosa di utile.
[3] Lauren Berlan ha inventato questo uso di “morto”.
[4] Questo momento dell’origine è esso stesso fantasmatico; ma smetterò di contare i colpi di scena di questa tragica storia della modernità, mi avete capito.
[5] Modernità, colonialismo, capitalismo e liberalismo non sono la stessa cosa, ma appartengono allo stesso continuum, condividendo intime relazioni di filiazione, co-genitorialità, simbiosi, fusione e potenziamento reciproco. Ai fini di questo racconto è sufficiente dire che, oggi, colonialismo, modernità, liberalismo e capitalismo sembrano essersi fusi in un unico ultra-corpo discorsivo e governativo, senza vita ma incontenibile.
[6] Questa tendenza a percepire la realtà come elemento unitario è ugualmente presente nell’immaginario storico del liberalismo, che pensa alla successione di “epoche” o “tempi”, e in quello del marxismo, che pensa alla successione di “sistemi di produzione”. In questo modo di pensare, la “realtà” assomiglia alle piccole scatole di un calendario moderno, ciascuna successiva alla precedente e un passo verso quella successiva, fino al paradiso (liberal-capitalismo utopico o comunismo).
[7] La “differenza” è lo strumento base di governo nella modernità. Quando non c’è alcuna differenza che l’occhio dominante possa percepire, esso diventa cieco, si muove istericamente senza poter afferrare nulla e pretende dalle sue cartografe ufficiali di creare nomi, confini, popolazioni, tipologie, categorie, identità, ecc. (come evidente, ad esempio, nei dispositivi di governo coloniali/apartheid).